Come ben sappiamo il feto, sin dal momento del concepimento, assorbe tutto ciò che arriva dalla madre poiché necessitato per ovvi motivi di sopravvivenza. 

    Il futuro bambino a sua volta è circondato da un determinato gruppo di adulti e da un particolare tipo di ambiente, che insieme creano un’atmosfera unica.

    Il piccolo nuota in questo mare psichico e per sua natura assimila tutto quello che incontra perché lo considera buono e vero.

    In questa dinamica costruisce il proprio barattolo di stereotipi in cui, quando sarà più grande, ci si chiuderà dentro per non uscirne più.

    Imparerà quel tipo di comunicazione, quegli sguardi, quelle malattie, quei litigi, quelle tristezze, quelle percezioni invisibili che ancora lui, al contrario degli adulti, può captare, e su queste formerà la sua futura personalità.

    Il termine personalità può avere varie origini.

    1) Deriva dal latino personare = atto di parlare degli attori del teatro classico attraverso la maschera di legno che portavano sul volto (formato da: per = attraverso e sonare = risuonare). Ci si riferiva agli attori del teatro classico che “parlavano attraverso” (la maschera lignea che indossavano in scena).

    2) Dall’etrusco persu e dall’indi persuna, che indicano “personaggi mascherati”, a loro volta, derivanti dal greco prósōpon = che può indicare il volto dell’individuo, la maschera dell’attore o il personaggio rappresentato.

    3) Dal latino pars = parte, funzione, ruolo di un personaggio. 

    Nella moderna psicologia, si definisce persona un essere dotato, almeno potenzialmente, di coscienza di sé e in possesso di una propria identità.

    Questa definizione pur avendo la sua validità, è fuorviante, e ti spiego perché.

    Ognuno di noi è sempre il risultato di molteplici fattori che, sinergicamente, nel tempo hanno contribuito a “costruire” ciò che la persona crede di essere.

    Di fronte avremo quasi sempre delle “rappresentazioni” proprie di uno spettacolo teatrale messo in scena dallo stesso individuo. In questo spettacolo, che è la vita, il soggetto indossa varie maschere con le quali si relaziona e ricopre delle funzioni, mai la sua verità. 

    Si è adattato fino a incarnare i condizionamenti ricevuti tramite informazioni psichiche, con la credenza che siano opera sua.

    Lo stoico greco Panezio (185-109 a.C.) sosteneva che l’uomo non portava sulla “scena” della vita la sola maschera (prosopon) generica dell’essere umano ma anche quella che caratterizzava la propria individualità fin dalla nascita alla quale, poi, se ne aggiungevano altre due: una terza, determinata dalle vicissitudini della vita, e una quarta caratterizzata dalla sua attività lavorativa. 

    Il concetto di maschera è sempre visto in negativo. 

    Locuzioni come “mettere la maschera”, “giù la maschera”, “dietro la maschera”, indicano che ciò che appare è falso.

    Anche l’accusa di falsità però non è corretta.

    In realtà queste persone non stanno fingendo.

    Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863 –1938), è stato un attore, regista teatrale e insegnante russo, teorico del teatro, noto per essere l’ideatore del metodo Stanislavskij. 

    Egli affermava: «Solo il cattivo teatro finge, il buon teatro non è ne vero ne falso, ma è creazione, in quel preciso istante teatrale, di una realtà, di un senso. Ma cosa vuoi dire recitare “nel modo giusto”? Vuol dire: pensare, volere, desiderare, agire, esistere, sul palcoscenico, nelle condizioni di vita di un personaggio e all’unisono col personaggio, regolarmente, logicamente, coerentemente e umanamente. Questo significa rivivere una parte”».

    Questo recitare dei copioni si trasforma in abitudini.

    La parola abitudine deriva dal latino habitus = abito, cioè diventa “ciò che copre il vero”, appunto la maschera, con la quale il soggetto si muove nel mondo della vita.

    Queste abitudini si strutturano nel tempo intorno all’individuo e lo avvolgono in una morsa rigida, una lamiera, e proprio come un barattolo lo conserva sempre uguale.

    Infatti le persone non cambiano mai.

    Le rivedi dopo dieci, venti o trent’anni e sono sempre le stesse, con la stessa indole, uguale comportamento e identico modo di pensare.

    Un esempio eclatante è costituito dall’incontro fra vecchi studenti di scuola che si rivedono dopo qualche decennio. A parte la senescenza che ha colpito molti, si possono osservare le identiche situazioni di un tempo.

    È molto triste osservarle e costatare che tutto vorrebbe riportarti a quel tempo. Tu, se hai fatto un buon lavoro su te stesso, sei ovviamente cambiato e quel personaggio che loro ricordano, è morto e sepolto mille volte.

    Per loro invece non è così, anzi sei tu che non sei più quello di una volta, sei cambiato. Purtroppo non possono comprendere oltre.

    Occorre aprire quel barattolo, uscire, spazzare via tutta quella lamiera inutile e aprirsi al mondo, al nuovo, al bello e al buono. 

    Comprendere che siamo solo dei “costruiti” e che non siamo assolutamente stati creati così, è un grande sforzo, che dobbiamo comunque affrontare e portare a termine.

    È necessario mettere in dubbio tutto quello che sappiamo, verificare ogni più piccolo aspetto del mondo e di noi stessi e smettere di cercare fuori barattoli diversi, talvolta più coloriti e confortevoli, ma sempre barattoli restano.

    L’unica via è sempre la conoscenza di noi stessi, la coerenza col nostro Punto Zero, e la messa in pratica di ciò che siamo nella nostra profonda essenza.

    Con i barattoli, così auto confezionati, sono riempiti i recinti del Dominio, costituiti dalle religioni, sapienze millenarie, ideologie, morali.

    Per questo motivo gli stereotipi sono proposti continuamente, mantenuti e caldeggiati. Perché permettono la manipolazione individuale e collettiva.

    Dal barattolo si esce solo individualmente!

    Non esiste gruppo alcuno al mondo capace di liberarti.

    Lo devi fare da solo

    E gli strumenti oggi esistono e sono alla portata di chiunque, mi riferisco alle intuizioni, alle percezioni e ai sogni.

    Basta volerlo.

     

    Maurizio Fani

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