1. È RAGIONEVOLE IPOTIZZARE UNA CAUSA GENETICA?
  2. PLATONE E GURDGJIEFF
  3. IL MECCANISMO OMOLOGANTE
  4. LE FUNZIONI DEL MECCANISMO OMOLOGANTE
  5. SCHIAVITÚ OBBLIGATA?
  6. LA PSICOLOGIA DELLO SCHIAVO
  7. SCHIAVO, DISSIDENTE, PRIGIONIERO, LIBERO

Parlare di schiavitù oggi pare un controsenso. Eppure proprio in questo periodo emerge in modo chiaro e inequivocabile un’attitudine alla sottomissione acritica di proporzioni planetarie.

Mi riferisco a una schiavitù diversa da quella che taluni possono arrivare a concepire.

Non parlo del prigioniero di guerra, catturato e reso schiavo.

Non parlo di chi è deportato, è venduto come schiavo.

Nell’anno 71 a.C. 6.000 schiavi furono crocefissi lungo la Via Appia che va da Roma a Capua. Erano capeggiati dal trace Spartacus, nobile catturato dai legionari e costretto a fare il gladiatore. Egli riuscì a fuggire dal campo di addestramento dei gladiatori di Capua con 70 compagni e arrivò a mettere insieme un esercito di circa 70.000 uomini. Poi a causa di dissidi interni e della sua incapacità di abbandonare i suoi uomini, lui morì e furono quasi tutti sterminati dall’esercito imperiale romano.

Questa è una storia di schiavi che non accettano la condizione cui sono costretti. Come questa ce ne sono infinite altre, alcune anche con un finale felice.

Sono fenomeni diversi dalla schiavitù attuale.

Nessuno di questi soggetti era contento del suo nuovo status e, infatti, alcuni hanno cercato una soluzione, nella fuga, nella lotta oppure nell’emancipazione.

È mio intendimento indagare invece in quella particolare situazione dove l’individuo non è costretto a essere schiavo ma si auto proclama tale trovando in questo una realizzazione di sé.

Ho cercato di individuare le possibili cause che portano a un simile comportamento, che non ha mai smesso di caratterizzare l’essere umano, ricostruendo non solo la psicologia ma soprattutto l’ontologia di chi si fa schiavo e gode di questa scelta, difendendola a priori anche contro il proprio interesse.

Il parmenideo “l’Essere è, e il Non-essere non è” si ripropone puntualmente, e alla fine vedremo come quest’affermazione sia all’origine di tutto il processo di accettazione della perenne e soddisfacente soggiogazione.

1) È RAGIONEVOLE IPOTIZZARE UNA CAUSA GENETICA?

Esiste da molti anni un gruppo di ricercatori come Zacharia Sitchin, Mauro Biglino, Alessandro Demontis, Pietro Buffa, Massimo Barbetta, Francesco Esposito e Marco Pesci, che hanno documentato un’ipotesi molto interessante circa la creazione dell’uomo.

Sostengono che l’annoso conflitto tra creazionisti ed evoluzionisti si potrebbe ricomporre con una diversa interpretazione dei testi antichi e un’apertura a una visione sempre supportata scientificamente.

A me non interessa né il conflitto in essere, né la sua risoluzione.

Certo è che un’ipotesi come quella da loro formulata si adatta perfettamente al mio pensiero e di conseguenza la devo prendere in considerazione.

È un fatto sotto gli occhi di tutti che alla massa del genere umano piace, essere schiava. Emerge proprio quest’attitudine di sottomissione che non è facilmente spiegabile se non ci appelliamo a ricerche a più vasto raggio.

Per esempio i creazionisti fanno loro il verso 7 capitolo 2 della Genesi (versione inglese del re Giacomo): «E il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra, e soffiò nelle sue narici il soffio della vita e l’uomo divenne un’anima vivente».

Ma nel testo ebraico, che in fondo è quello originale, (cioè meno o non interpretato), l’opera creativa è attribuita a degli Elohim che, tradotti adeguatamente, non corrisponde a Dio ma a dei.

Al versetto 15 troviamo le seguenti parole:«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse».

Da questo punto si evince che occorreva qualcuno che lavorasse la terra.

Proseguiamo.

Nel versetto 1-26-27 troviamo:« E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine;

a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.».

Nel capitolo 2 le cose si complicano. Troviamo che Adamo riceve una compagna creata dalla sua costola. Ma Dio noin aveva creato l’uomo sia maschio sia femmina prima?

Altra domanda spontanea. Perché dicono Facciamo l’uomo? Pare che qualcuno si rivolga a un uditorio e che questo qualcuno non sia solo.

A allora come poteva essere Dio?

Come ben sanno gli studiosi La Genesi riassume testi molto più antichi di appartenenza sumera/mesopotamica (Atra Hasis) che raccontano come gli Annunaki, provenienti dallo spazio, scesero sulla terra per l’oro ed ebbero bisogno di mano d’opera nelle miniere. Dovettero risolvere il problema di creare un essere intelligente capace di eseguire degli ordini.

Esisteva già sulla terra un essere che poteva essere migliorato per soddisfare lo scopo. Legarono su di lui l’immagine degli Elohim.

Questo passo è fondamentale perché si riallaccia al mio discorso delle immagini.

Questa fu un’accelerazione inspiegabile da un punto di vista evolutivo.

Così nacque l’Adamu, nome poi ripreso come Adamo.

Ma il termine Adamo non è un nome proprio ma deriva da Adamah = terra. Quindi stava a indicare un terrestre. Ma la desinenza dam significa anche sangue. Esattamente il modo attraverso il quale fu “costruito”.

In lingua sumera uomo si dice “Lu”. Il suo significato però non è “essere umano” ma piuttosto “servitore”, “addomesticato”.

La lingua accadica in cui fu scritto il testo Atra Hasis per indicare l’uomo usa il termine “lulu”che indica una mescolanza.

Quindi abbiamo un terrestre che attraverso una mescolanza di sangue diventa essere umano.

Hanno analizzato diverse cosmogonie sulla creazione e il fenomeno della mescolanza tra l’umano e il divino compare sempre. Si tratta di una costante. Il Dio mette l’essenza divina in un elemento terreno come fango o argilla.

I Sumeri avevano descritto la mescolanza dei geni divini degli Annunaki con i geni terreni dell’uomo-scimmia per fecondare l’ovulo di una donna scimmia.

Stiamo parlando della fecondazione in vitro com’è raffigurato da un sigillo cilindrico dell’epoca.

Secondo le testimonianze scritte e anche pittoriche, l’uovo della donna scimmia fu fecondato da un Annu8naki maschio giovane e poi posto in uno “stampo”. Successivamente impiantato nell’utero di una femmina Annunaki (non più femmina dell’uomo-scimmia).

Troviamo anche la spiegazione dell’apparente conflitto che ho evidenziato precedentemente dove all’inizio Dio creò l’uomo maschio e femmina e successivamente dette la compagna a Adamo.

In realtà dopo aver creato l’Adamo, il prototipo iniziò una produzione di massa dei nuovo esseri umani.

Successivamente, siccome gli Annunaki non volevano più mettere in gioco le proprie femmine, la tecnologia si affinò cessando la creazione per conto terzi e facendo in modo che gli umani si riproducessero da soli.

Ciò che colpisce è che le procedure descritte negli antichi testi sono corrispondenti a quello che oggi sappiamo sulla clonazione, sul DNA, sulla genetica.

Per riprodurre qualsiasi creatura c’è sempre bisogno dei geni del suo “creatore”.

Anche in agricoltura questo procedimento è conosciuto come innesto fin dal Gregor Johann Mendel, monaco tedesco, fondatore della genetica.

Può apparire fantasiosa questa ipotesi però a parte la faccia che ci hanno messo i tanti studiosi e ricercatori, esistono documentazioni certe cui fare riferimento e oltremodo verificabili.

La certezza non c’è.

Del resto avere certezze su fatti di migliaia di anni fa, lo ritengo alquanto improbabile e sostanzialmente inutile.

L’unico dato che vedo essere importante è che l’attuale essere umano potrebbe avere una genetica di servaggio insita nel suo DNA. In fondo siamo stati progettati per essere servitori e schiavi, per estrarre l’oro dalle miniere e non per essere liberi. Come sempre nelle replicazioni cellulari tutto non va sempre come previsto e una piccola parte ha “dirazzato”, scoprendo la via della libertà interiore. Ma solo una piccola parte, la maggioranza è riuscita benissimo (purtroppo).

2) PLATONE E GURDGJIEFF

Un’altra spiegazione che potrebbe essere integrante della precedente è di un “meccanismo” insito nell’essere umano che lo porta a vedere il mondo in maniera totalmente fallace.

Il primo a scrivere di questo argomento è stato Platone nella “Repubblica” (Opere, Laterza, vol II, 1967), quando descrive il mito della caverna:

«Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose. – Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. – Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? – E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? – Sicuramente. – Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? – Per forza. – E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa? – Io no, per Zeus!, rispose. – Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. – Per forza, ammise. – Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che cosí facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo piú vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi piú essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe piú vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?»

Il linguaggio è allegorico e testimonia l’illuminazione dell’individuo.

L’uomo deve svegliarsi da quel sonno che è chiamato “vita” (equivalente alla liberazione del prigioniero); in seguito egli si rende conto delle finzioni che l’uomo credeva entità reali (le ombre sulla parete della caverna, le voci dell’eco); infine, egli giunge a vedere la verità per quella che è realmente (il sole, la conoscenza e il mondo reale all’esterno della caverna). L’istinto dell’uomo è di liberare gli altri prigionieri per condividere le sue scoperte, ma questo tentativo è inutile, in quanto i prigionieri non possono e non vogliono vedere oltre le rassicuranti ombre e attaccano il portatore della verità. Sarebbe ucciso. Qui fa esplicito riferimento alla morte di Socrate che proprio per aver cercato di mostrare la verità ai giovani ateniesi è stato condannato a morte.

Un altro che ha descritto questo particolare meccanismo è stato Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo e mistico armeno, che nel suo libro “I racconti di Belzebù a suo nipote”, parla in maniera romanzata e metaforica del grande problema della razza umana.

Il libro è una specie di lunghissima favola in cui si racconta come nell’anno 1921 d.C., il narratore (cioè Belzebù), viaggiava nel cosmo su una nave spaziale diretto dal suo pianeta Karatas verso il sistema solare Pandetznokh per recarsi a una speciale conferenza.

Nel capitolo “Perché gli uomini non sono uomini” Gurdjieff descrive ciò che accadde per mano di forze aliene al pianeta Terra. Gli esseri umani si stavano distruggendo tra di loro e fu deciso di inserire dentro di loro, esattamente alla base della spina dorsale, lì dove una volta anch’essi avevano la coda, un organo speciale, il Kundabuffer, le cui proprietà avrebbero fatto percepire la realtà in maniera capovolta, e in base al quale ogni impressione ripetuta dall’esterno avrebbe generato fattori per evocare in loro sensazioni di “piacere” e di “godimento”: fu denominato “organo Kundabuffer”.

Quest’organo fu tolto ma inspiegabilmente le sue caratteristiche si erano così tanto cristallizzate che divennero ereditarie e furono tramandate.

Fu la causa di una psiche anomala dei terrestri più nota con i termini di egoismo, vanità orgoglio, opinione di sé, suggestionabilità e così via.

A causa di questo il processo di auto perfezionamento della coscienza fu reso impossibile.

Il “senso istintivo della realtà” fu capovolto.

Periodicamente furono inviati sulla Terra Maestri che tentano di eliminare le conseguenze dell’Organo Kundabuffer.

Il loro insegnamento si basava sullo sforzo cosciente e sulla sofferenza intenzionale per mettersi in sintonia con la Vita al fine di produrre comprensione.

Il Kundabuffer proietta continuamente delle immagini che hanno corrotto gli istinti sani e hanno deviato l’umano da se stesso.

L’uomo è incapace di percepirsi come parte del tutto ma separato.

Per disinnescare le reminescenze di quest’organo l’uomo dovrebbe passare da uno stato meccanico a uno più evoluto di coscienza attraverso la scelta di una sofferenza volontaria ma utile.

Anche questa interpretazione è assai simile a quella di Platone.

La mia esperienza clinica di trentacinque anni di professione mi conferma che queste descrizioni sono vere perché producono effetti visibili e concreti, naturalmente sempre a danno del soggetto mai a suo vantaggio.

3) IL MECCANISMO OMOLOGANTE

Descriverò delle realtà umane che la maggior parte delle persone ignora.

Questo accade non perché nessuno lo abbia mai detto ma perché la grande maggioranza delle persone paiono non essere interessate all’argomento.

Sto descrivendo un meccanismo che esiste da sempre e che si è così ben simbiotizzato con l’umano che ormai nessuno lo vede più come estraneo, anzi è venerato e ascoltato e se provi a far notare la sua pericolosità quasi tutti lo difenderanno all’ultimo sangue perché si sono pienamente identificati con esso. Lui lavora contro l’umano e contro la felicità che ogni uomo ha il dovere di ricercare, in cambio elargisce la certezza del plauso della maggioranza e del dominio. Per molti questo è un traguardo.

Chi invece rifiuterà la mia ipotesi stia pur tranquillo e sappia, fin da adesso, che è assolutamente normale che accada.

Alla base del comportamento umano esiste questo congegno dalla logica matematica che sostituisce ciò che sarebbe per l’uomo naturale, attraverso pensieri, emozioni, sensazioni e immagini prestabilite, allo scopo di farlo andare “a vuoto”, per sottrargli energia, intelligenza e vita.

Molto simile a un programma informatico, alla sua base esiste l’inganno costruito su codici informatici. È in grado di coordinare con precisione matematica tutti i circuiti cerebrali, pre-orientando ogni relazione affettiva, emozionale e di pensiero.

È particolarmente presente nel sociale e nelle affettività.

Questo procedere si cela sempre dietro tutto quello che noi intendiamo per male, peccato, deviazione, lussuria, malattia, disgrazia, angoscia, tristezza, depressione, sfortuna, destino, avidità, potere, dominio, cultura, sapienza millenaria, religione, spiritualità, new-age, conoscenze iniziatiche, senso comune, etica, morale, solidarietà, e così via.

Ha il compito di “fissare” l’uomo fuori da se stesso dentro a degli schemi simili alla scacchiera.

Informa, cioè impone un modo di pensare e di agire all’umano, impedendogli l’accesso alla sua parte più vera: il Punto Zero.

L’ho definito Meccanismo perché è un complesso di elementi organizzati tra loro in maniera sistemica e cibernetica che tende a ripetere ossessivamente messaggi psichici limitanti e devianti, attraverso le immagini, che fanno presa negli individui, costringendoli a un’inferiorità psichica e fisica.

Omologante perché è un modello che appiattisce su posizioni regressive l’essere umano e conforma all’esperienza umana comunque in una perdita esistenziale costante, trasmissibile per via memetica.

La memetica è costituita da tanti memi. Un meme sarebbe un singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento trasmesso da un individuo a un altro, per imitazione comportamentale e per contagio psichico.

La memetica è la scienza che si occupa dello studio dei memi, e ipotizza che, analogamente ai modelli standard biologici che spiegano la somiglianza fra generazioni con i geni, così si possono spiegare le “eredità culturali” attraverso replicatori chiamati memi.

Tutto ciò che può essere definito cultura, è certamente diverso dal patrimonio genetico, ma in comune con questo ha la capacità di trasmettersi attraverso individui, anche se con modalità di trasmissione differenti.

Premetto: non credo che sia solo negativo.

Non lo è affatto.

Puoi definire la tecnologia negativa?

E così la medicina, la legge, l’informatica, la cultura in genere compreso il linguaggio, il mondo degli affari?

Certamente no!

L’esistenza si è costruita avendo alla base questo Meccanismo creando una simbiosi tra le due componenti.

Il termine simbiosi in biologia sta a identificare uno stretto rapporto, una compenetrazione di elementi diversi tra loro, fino a non distinguere più chi comanda e chi esegue.

Il segreto non è quello di andare “contro” questo Meccanismo ma di scoprirlo, capirlo e saperlo utilizzare per i propri fini evolutivi e soddisfattivi.

Entrare e uscire da esso, usandolo senza investirci emozione e soprattutto senza crederci. Proprio come la navicella Nabucondonosor in Matrix, che conosce i codici pirata di Matrix ed entra ed esce a suo piacimento da essa.

Esattamente come un gioco, un videogame.

Gioco che se si sbaglia può condurre alla morte.

4) LE FUNZIONI DEL MECCANISMO OMOLOGANTE

Apparentemente potrebbe essere visto come un male assoluto ma non è così. È vero che il suo scopo, in prima battuta, è quello di controllare e sottrarre energia all’uomo ma è anche altrettanto vero che possiede altre importanti funzioni:

  1. a) Funzione sociale

Dona consistenza all’esistenza creando opportunità d’investimento personale con effetto positivi. Tutti noi viviamo nel mondo e del mondo, senza non potremmo fare niente. Per creare la mia realtà ho bisogno del mondo, della società e di tutti i suoi apparati. Le persone vivono, lavorano, amano, esistono al cospetto di questo Meccanismo. In ogni occasione sanno sempre quello che devono fare e devono dire. Sanno cosa è bene e cosa è male. Hanno dei riferimenti granitici nella morale, nelle religioni, negli stereotipi, nel senso comune, che gli permettono di vivere ”senza pensare”. Ciò avviene in maniera del tutto automatica. Il Meccanismo rappresenta pur sempre una traccia, una guida da seguire in mancanza della consapevolezza individuale. Mantiene gli individui nella totale assenza di responsabilità esistenziale, sufficientemente coesi e gestibili dal Dominio. Non possiamo farne a meno se vogliamo vivere in e di quest’umanità. Tutti lo abbiamo sperimentato da quando siamo venuti al mondo. La maggioranza non potrebbe vivere senza la sua invadente presenza, dato che lui è ovunque.

Sua presenza è assolutamente necessaria.

  1. b) Funzione pedagogica

Per coloro che lo comprendono, quelli più intelligenti, il Meccanismo ha un potente effetto educativo. Considerato che tutti noi ne siamo vittime e che affrontare la sua comprensione è atto di pochi, già fornisce le dimensioni della scrematura purtroppo obbligata. Una volta compreso che la vita non è quella che ti hanno raccontato i genitori, la scuola, il prete, gli amici, la società, la televisione e i giornali, devi cercare un altro senso alla tua vita: il tuo senso, unico e irripetibile.

Ecco la funzione di crescita!

Quando ti accorgi che, come diceva Gino Bartali, “è tutto da rifare”, ALLORA INIZI A SOFFRIRE MA ANCHE A SPOSTARTI IN ALTO.

Lui fa male ma non è un male “col ghigno malefico, in realtà cerca di insegnare la via della tua esistenza. Questa valutazione riguarda solamente coloro che lo comprendono e lo usano in modo vantaggioso per se stessi.

Crea aumento di coscienza e guadagno esistenziale indubbio.

  1. c) Funzione realizzativa

Considerato che questo Meccanismo è indispensabile per la massa, appare evidente la sua utilità. Lo scopo cui tendere deve essere quello di conoscerlo e impadronirsene. Non sarà mai possibile un’abreazione totale perché lui, il meccanismo omologante, sarà sempre pronto, a rifarsi vivo non appena cadremo in errore con noi stessi.

Più la gente crede di avere potere nel mondo dell’apparenza, meno potere ha nella vita reale. L’uomo si deve riappropriare del suo potere e non farsi trascinare in perdita da quella perenne illusione del mondo alla quale tutti tendono.

Il più grande nemico è dentro di te.

Il fine non è eliminare il Meccanismo.

Primo perché è impossibile. Nel quotidiano per la conduzione della propria esistenza è bene imparare a usarlo senza investirci emozione. Se si opera in questo modo, si potrà giungere a se stessi. Il suo superamento corrisponde a una presa di coscienza di ciò che siamo.

Moltissimi sapienti hanno individuato il “torpore misto a sonno” che ha da sempre caratterizzato l’umanità in ogni epoca, traendo varie considerazioni. In particolare tutti hanno cercato di individuare e definire il perché l’uomo sia così reticente allo sviluppo dell’auto conoscenza di sé e della scelta della sofferenza invece che della felicità.

5) SCHIAVITÚ OBBLIGATA?

Inizialmente sì, nessuno è immune.

Poi, a un certo punto della vita, alcuni provano un’insoddisfazione cronica, un bisogno di qualcosa che non c’è ma che sanno che da qualche parte esiste. Ecco quello è il momento del cambio di passo.

Il momento della speciazione evolutiva.

Lentamente si assapora l’urgenza di ridisegnare la propria esistenza in termini diversi.

Capiamo che tutto quello che hanno insegnato è sbagliato e per noi non può funzionare, vogliamo altro, abbiamo bisogno assoluto di altro.

Come avrai certamente capito se sei giunto a leggermi fin qui, la vita che tutti svolgono non è la “VITA VERA”.

È una pallida copia distorta, senza molto senso se non quello della ripetizione alienante di tutto in maniera ossessiva. L’uomo con la “U” capitale non ha bisogno degli stereotipi, li usa ma non li crede. Non serve sposarsi, fare figli, lavorare, acquistare auto, casa, moto, seconda casa. Non serve puntare alla pensione, fare il tifo per i nipotini e leggere giornali e assistere alla tv.

No questo nulla ha a che fare con la vita, anzi è tutto contro.

Torniamo alla frase di apertura, dove accennavo a Parmenide col suo “L’Essere è e il Non-essere non è”.

Se facciamo questo salto evolutivo per noi stessi, per amare, conoscere e realizzare la nostra specificità, va tutto bene.

L’universo resta inerte a ogni nostra azione che prevede per noi un vantaggio esistenziale. Lei coincidenze significative si moltiplicano a dismisura e tutti gli eventi del gioco dell’esistenza paiono danzarci intorno per plaudire alle nostre prese di posizione.

La vita dimostra di amarti.

Ma tu hai dimostrato di amarla cercando il tuo principio primo, soffrendo e lottando per Essere ciò che in potenza era già previsto dal tuo progetto di natura. Stai semplicemente assolvendo il tuo compito di UOMO o di DONNA.

Stai correndo incontro alla felicità e tutto arride, non senza sforzo perché non puoi distrarti mai, neanche un secondo.

Ogni giorno ti giochi il tutto per tutto, cammini sul filo del rasoio, tra uno strapiombo e l’altro e soprattutto sei solo.

Una solitudine particolare, non da sopportare ma che esalta e fa riflettere. Una rigenerazione che ritempra la tua lucidità.

Stai con gli altri quanto serve, per quanto necessario ma senza perderti in chiacchiere, in inutili chat e discorsi ripetitivi. Tutto ciò che è ripetitivo senza novità di Essere porta a farti riagganciare dal Meccanismo Omologante. Perdi vitalità e intelligenza.

Lui è sempre lì e non perdona. MAI!

E tutti gli altri?

Eccoci giunti al nocciolo di questo post.

Gli altri s’incammineranno verso strade alternative.

Avendo commesso nei propri confronti il delitto più grave in assoluto saranno ridotti in schiavitù fino al momento in cui non se ne renderanno conto.

Ti ricordi Platone quando descrive gli individui incatenati che guardano il muro?

Bene.

Le menti più intelligenti e capaci hanno saputo individuare questo meccanismo e nel passaggio tra il Paleolitico e il Neolitico si è venuto a creare il Dominio, che per la maggioranza passa sotto il nome di civilizzazione.

Da allora lo status di schiavo è iniziato a girare.

Tra i cacciatori e i raccoglitori non esisteva la figura dello schiavo.

Per quanto riguarda il Dominio puoi vedere altri miei post in merito come il commento al film “Instinct” con Anthony Hopkins. In questa sede è sufficiente che ti ricordi che da allora è sorta la necessità di trovare persone che lavoravano per gli altri e non per se stesse e questo sarebbe accaduto con l’utilizzo di alcune “invenzioni” da parte del POTERE:

– LA PROPRIETÀ

– LA GUERRA

– LA RELIGIONE

Con l’invenzione della proprietà bisognava combattere o per conquistare o per difendere.

La guerra era funzionale perché una netta minoranza potesse sopraffare una vasta maggioranza a suo esclusivo vantaggio.

La religione è stata una manovra più complessa. Inizialmente si è reciso il legame tra l’individuo e se stesso, la sua parte trascendente. Gli hanno raccontato che lui non era in grado, che non poteva e che avrebbe dovuto servirsi d’intermediari per dialogare col divino.

Purtroppo lui ci ha creduto.

Così la religione è diventata la colonna portante del potere perché era necessario “convincere” la massa a lottare e morire per gli altri (e non per se stessa).

Ecco che da allora si è formata quella psicologia dello schiavo, felice di essere tale perché ripagato dal potere di turno con alcuni miseri benefici che comunque lo facevano sentire sopra alla media, sopra gli altri, FELICE DEL SUO NON-ESSERE.

Ammirato e invidiato.

6) LA PSICOLOGIA DELLO SCHIAVO

Aristotele (384-322) nella Politica riprende il concetto di proprietà come appartenenza, e lo schiavo è definito come chi “non appartiene a se stesso, ma a un altro”. Il termine “oggetto di proprietà” si usa allo stesso modo che il termine “parte”.

La parte non è solo parte di un’altra cosa, ma appartiene interamente a un’altra cosa della quale appunto fa parte.

Per ciò, mentre il padrone è solo padrone di se stesso e dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui ed è alieno (estraneo) a se stesso.

Come potrà mai realizzarsi e vivere felice?

Questo significa che esistere come corpo non garantisce alcuna libertà.

Anzi si ha solo la certezza di non vivere una vita propria.

Cioè tutta l’energia spesa nel vivere non è finalizzata per me, non trova me come riferimento di sviluppo e crescita, non è un investimento per me ma per altro da me. Vuol dire produrre per un altro, esistere per un altro.

Io faccio la storia di una altro (ed io dove sono?)

Per avanzare e uscire dal concetto di “non appartenere a se stessi” occorre diventare consapevoli dei condizionamenti, delle “catene del mondo” come asseriva Hegel.

Per fare questo è necessario guardare in faccia l’assoluta devastazione.

Questo è inevitabile per diventare contemporanei di se stessi, per conquistare il “sapere assoluto”, ab-solutus = sciolto da ogni condizionamento, libero da quelle “catene del passato” che ancora imprigionano gli uomini.

In sintesi la conoscenza di ciò che si è.

Ma è assai difficile.

Il termine schiavo identifica chi è privo della libertà personale e dei diritti, e appartiene ad altri come una cosa. È soggetto alla volontà o alla forza altrui e non può disporre liberamente di sé, si lascia dominare da una determinata condizione o consuetudine.

Tra il quinto e l’ottavo secolo, gli Slavi ebbero una grossa espansione in Asia minore e in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico. Poi furono ricacciati e per due secoli furono annientati in maniera violentissima.

La schiavitù degli slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché tutte le lingue europee, al termine “schiavo”. Il vocabolo latino sclavus = schiavo, fece la sua comparsa nel XIII secolo sostituendo il termine classico “mancipium” (da cui “emancipare”, uscire dallo stato di asservimento).

Il nome di un popolo ha designato per sempre una specifica categoria sociale.

Come pensa lo schiavo su cui stiamo indagando?

Il suo pensiero e la sua azione sono sempre in difesa della sua pochezza.

Difende pedissequamente ciò che lo rende proprio prigioniero perché ha l’assoluta necessità di identificarsi in qualcosa/qualcuno e non essendo se stesso deve per forza di cose prendere in prestito un’identità che prontamente gli fornisce il dominio.

Impiega modi, pensieri e argomenti uguali a quelli che sono stati utilizzati per forgiare la sua coscienza distorta e limitata. Non scegli, non decide.

Questo l’ha fatto quando HA DECISO DI NON INTERESSARSI DI SE STESSO.

Adesso non può più scegliere e prende per buono tutto quello che gli è proposto.

È incapace di valutare la realtà perché ne è sempre molto distante.

È il soggetto perfetto per il Dominio, obbediente, delatore e corruttibile, fino a trasformarsi in guardiano e boia dello stesso padrone.

Invoca gli stereotipi e ascolta minuziosamente tutti i media. Sposa le tesi che sente dire. Non ha mai un suo pensiero ma prende i pensieri e le parole degli altri e le fa proprie come una fotocopiatrice. Non ha coscienza ma vota, imita, ascolta essenzialmente quelli che lo attirano di più facendo leva sulla sua pochezza e sui suoi complessi. Lo schiavo approva tutti i sacrifici, le restrizioni delle libertà, anche se non ama la vita che fa ed è sempre senza prospettiva futura.

Il punto centrale è che ha perennemente paura.

Non puntando a se stesso diventa “piccolo” DI FRONTE ALLA VITA, IMPAURITO E BISOGNOSO DI PROTEZIONE.

Ecco che la paterna mano del Dominio è pronta per soccorrerlo e afferrandolo per mano (anche per qualche cos’altra) lo mantiene in perenne infantilismo, trattandolo da scemo.

Il termine scemo deriva dal latino semis = metà.

Designa un individuo che è la metà di ciò che dovrebbe essere, cioè non è un intero.

Suggerisce non tanto una qualità negativa quanto una carenza. In psicologia l’equivalente è scisso, schizofrenico.

Manca di una dimensione psicologica matura.

Un individuo scemo è quello che non intraprende un percorso interiore, che non vuole evolvere, ma si accontenta di una vita meccanica.

È uno scemo di lusso perché il Dominio è solo grazie a lui che può esercitare la sua azione indisturbato.

Hitler ha potuto fare ciò che ha fatto grazie ai tantissimi schiavi, alle masse che l’hanno seguito, appoggiato ed eletto.

L’obbedienza è sempre stata la principale componente di ogni totalitarismo ed è sempre stato il popolo a portarla avanti, a incarnarla, popolo che non ha mai fatto nessuna rivoluzione ma che è sempre stato pilotato dall’esterno, stimolato con motivazioni religiose, salvifiche, di orgoglio nazionale, sempre contro se stesso.

Guarda e imita anche gli altri come lui.

Fa il poliziotto, il guardiano, il controllore, la spia del sistema.

Lo schiavo si trincera dentro la sua situazione protegge e cerca sostegno da chi li ha inoculato la paura.

Fa la spia. Sono i più fanatici i meno creativi, i più infelici.

Lo schiavo si fida solo dell’informazione del main stream. Si tratta di un fenomeno trasversale a tutta la società e non è caratterizzato da un basso livello culturale. Sono assai presenti nei blog politici, economici, culturali e di moda. Spesso sono individui premiati per il loro vassallaggio dal sistema che puntualmente richiede loro di essere appoggiato al momento giusto.

Sono quelli che hanno sempre visibilità televisiva e prendono riconoscimenti sociali mai rapportati al loro reale merito.

Lo schiavo si sente al sicuro quando c’è qualcuno che pensa per lui.

E si scaglia contro chiunque possa mettere a repentaglio il suo stato di detenzione. Vive da codardo e da pauroso. Ama la sua cella, l’abbellisce continuamente. Il Dominio lo loda, in modo che i codardi siano scambiati per persone corrette, obbedienti, ligi, con alto senso civile.

Le “brave persone”.

Sa che è approvato dal potere e questo lo tranquillizza e lo rincuora.

Il mondo è sempre stato pieno di questi soggetti. Non hanno mai dato alcun apporto positivo all’umanità ma hanno sempre deteriorato l’ambiente psicologico in cui hanno vissuto.

Nietzsche scriveva: «Il risentimento è l’emozione dello schiavo, non perché lo schiavo sia risentito, ma perché chi vive nel risentimento vive nella schiavitù».

Il risentimento porta con sé l’emozione di rabbia, frustrazione, impotenza. In ultima analisi una perdita totale della propria esistenza.

Ri-sentimento, cioè una sconfitta vissuta nel passato che è continuamente ri-sentita e ogni volta accresce il livello delle emozioni negative.

La “sindrome di Stoccolma” è una patologia riconosciuta che vede il soggetto che è stato sequestrato e privato della libertà, stabilire un legame d’affetto con il suo aggressore, lo schiavo può sentirsi soddisfatto dall’annullamento della sua libertà.

Invece se prendesse se stesso e ne facesse un vessillo ecco che si staglierebbe sul fondo della mediocrità. Ma in questo caso dovrebbe sopportare con coraggio l’esibizione della sua differenza.

Pochi osano, molti si conformano al pensiero dominante.

Kurt Cobain (1967-1994), leader dei Nirvana, morto in circostanze misteriose, ha detto: ֿ«Ridono di me perché sono diverso, io rido di loro perché sono tutti uguali».

Esiste un’uniformità di pensiero, che ci permette di non sentirci strani con le persone che abbiamo attorno. Ma quando ci spingiamo oltre, quando ci togliamo di dosso le maschere, i ruoli e le finzioni, per gli altri diventiamo, davvero diversi, a volte troppo diversi.

Solo allora notiamo la nostra unicità e se abbiamo capito qualcosa, ne godiamo.

7) SCHIAVO, DISSIDENTE, PRIGIONIERO, LIBERO

Questo è un passaggio obbligato.

Lo schiavo per emanciparsi dalla sua costrizione deve dissentire con i comandi che gli sono imposti. Il DISSIDENTE matura un’opinione diversa, anche contraria. Verifica le informazioni e non prende niente per vero senza indagare personalmente o quanto meno documentarsi.

A questo punto si percepisce prigioniero.

Poi dopo questo passaggio intermedio ecco che se vuole proseguire si percepisce PRIGIONIERO.

Il livello di sofferenza s’impenna e tutte le risorse disponibili sono mobilitate.

Vuol dire che ha cognizione della sua prigione, la vede ma non la vuole.

Prende di mira l’uscita e forza la porta in ogni modo.

Desidera uscire con tutto se stesso.

Vede la sua libertà, la sua realizzazione, a tutti costi vuole se stesso.

S’impegna in un percorso di crescita suo personale, non mediato, IL SUO PERCORSO unico e mai uguale a nessun altro.

Non si ribella nel senso violento del termine ma opera una rivoluzione interiore. Cambia internamente la sua coscienza, fa metànoia.

Abbandona la psicologia deferenziale, il principio di autorità cui tutti s’inchinano ed esce dalla catena di montaggio della fabbrica del consenso.

Lui vuole solo amare, conoscere e fare se stesso.

È DUNQUE LIBERO!

Maurizio Fani

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