Questo periodo vede convergere molte festività delle quali poco o niemte le persone conoscono.
Abbiamo le feste cristiane di “tutti i santi” della “commemorazione dei defunti”. Poi abbiamo il Samahin celtico, l’Halloween di origine inglese e il solstizio d’inverno.
In un prossimo articolo potrà essere interessante descrivere tutti i passaggi della strategia impiegata dal Dominio per gestire le masse.
Ognuno dice la sua, racconta un tassello dell’intero puzzle omettendo il filo conduttore di tutto questo gioco simbolico tra religioni, tradizioni e fenomeni astronomici.
Il fulcro di tutto questo è la morte.
Infatti, la signora morte, è la protagonista di tutti questi riferimenti. La morte intesa come fine della vita, come passaggio a un’altra vita, come sospensione dal giudizio umano, come inossidabile speranza di una vita migliore.
Ciò che non trovo mai è una seria considerazione sul rapporto con i propri defunti, poiché tutta l’argomentazione ruota lì.
È vero che alcuni pensatori, come Rudolf Steiner, hanno dedicato molte pagine all’argomento.
A me premeva un aspetto assai diverso.
Conseguentemente alla morte, i cimiteri offrono tradizionalmente la scenografia.
Sono luoghi esclusivamente dedicati ai vivi, fatti per i vivi e non certo per i defunti. Generalmente si crede che stimolino l’introspezione, il raccoglimento e la memoria di chi è trapassato.
Purtroppo non è così.
Mostrare pubblicamente il proprio dolore per la scomparsa di una persona cara fa parte degli stereotipi culturali che possiedono tutti i popoli.
Quando uno muore si usa dire quasi sempre “poverino” come se la morte, togliendo la vita, rendesse povere le persone.
In realtà è l’unica certezza che abbiamo: tutti noi dovremo morire prima o poi, e aggiungo, meno male!
Questo errore è causato dalla totale incapacità di avvicinarsi alla vita nel modo corretto.
La nascita e la morte sono due momenti che caratterizzano ogni esistenza.
C’è un inizio e una fine.
Ovvero esiste un qualcosa che è un seme che deve germogliare, crescere, espandersi e poi, infine, morire, più semplicemente detta vita.
Al di là delle ipocrisie sociali, di farsi vedere contriti, mostrare la tomba in ordine e ben adornata e soprattutto comunicare la propria presenza continua al cimitero, quante persone si chiedono veramente come il loro defunto ha condotto la propria vita?
Quale livello di consapevolezza ha raggiunto?
Quale esempio è stato per gli altri?
Praticamente nessuno.
Interpretano tutti un copione sociale.
L’unica riflessione veramente utile che dovrebbero porre a se stessi non sarà mai pensata.
Lacrime, tristezza, memorie dolorose, mai gioia per ciò che è stato, sorriso per quello che il defunto ha raggiunto nella sua esistenza, soddisfazione per quello che abbiamo potuto apprendere grazie alla sua presenza.
Anche io ho vissuto la separazione da persone a me molto care.
Per persone a me care non intendo i ruoli sociali ma individui che hanno sinceramente e realmente partecipato alla mia costruzione personologica di essere umano.
Non ho bisogno del cimitero per rivivere i bei momenti e per ricordarmi le belle persone.
Non sono triste perché oggi non sono con me. In fondo chi mi ha dato, poco o tanto, lo porto sempre nel mio cuore, con i miei pensieri, le mie parole e le mie azioni.
Chi mi ha insegnato vive con me e dentro di me, non morirà mai.
So bene che nessuno sarà eterno e che la fine di questa vita aspetta ognuno di noi. So anche, che una vita ben spesa per la ricerca, la conoscenza di sé e la successiva costruzione concreta di quello che siamo, rappresenta il miglior modo per prepararci a quel fatidico appuntamento, ma non per soffrire bensì per assaporare l’ultimo immenso piacere che la vita, nella sua magnanima generosità, ancora può donarci: la serenità di aver vissuto per come il proprio progetto di natura, la propria anima, aveva stabilito.
Ricordare i defunti vuol dire aver capito chi siano stati veramente, se ci hanno fatto del bene o meno, se ci hanno fatto essere di più o no, SE HANNO INCARNATO UN VALIDO ESEMPIO.
La maggioranza delle persone se avesse il coraggio di abbandonare quella insopportabile maschera di dolore ipocrita, imparerebbe a discernere il dolore dal piacere, il vitale dal tanatico, il bene dal male.
Tutti parametri aventi una sola e unica ORIGINE : la conoscenza di se stessi.
Molti mi chiedono: «Esiste vita dopo la morte?»
Io rispondo sempre: «Esiste la vita prima della morte?»
VIVERE NON SIGNIFICA ADEGUARSI AI VALORI SOCIALI, AL SENSO COMUNE E ALLE MORALI.
Vivere significa avere il coraggio di Essere ciò che si è nell’anima.
La morte non fa paura a chi ha vissuto bene.
Essa ricorda sempre che non abbiamo tempo e che, prima o poi, arriverà la fine. È un profondo invito a non indugiare, a non aspettare a impegnarsi seriamente per se stessi, a osare la propria originalità e a non cadere nelle trappole degli stereotipi e dei tanti meccanismi omologanti.
Ci ricorda il nostro compito principale per il quale abbiamo a disposizione solo questa vita. Ogni altra alternativa è ipotetica e non certa.
La morte ci indica la via della vita.
Per coloro che invece non amano la vita, che non amano se stessi, che non amano, e che non sono interessati alla propria evoluzione, la morte è solo la fine, la disgregazione, l’annullamento.
La funzione di stimolo vitale e di rinascita che reca con sé diventa per loro impossibile da percepire.
Ecco allora che gli individui adorano gli horror e le immagini “oscure” in genere. Purtroppo non possono fare a meno di emanare ciò che sono interiormente.
Ognuno ama l’immagine che ha dentro.
Bill Parrish impersonato dal grandioso Anthony Hopkins nel film “Vi presento Joe Black” dice: «Lo so che ti sembra smielato ma l’amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi. Io ti dico “Buttati a capofitto! Trovati qualcuno che ami alla follia e che ti ami alla stessa maniera!”
Come trovarlo? Bè, dimentica il cervello e ascolta il cuore.
Io non sento il tuo cuore perché la verità, tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo.
Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, beh, equivale a non vivere. Ma devi tentare perché se non hai tentato non hai mai vissuto».
La morte che la massa ha nel cuore è proprio quella sopra descritta.
Ma quella morte è molto peggiore della fine della vita.
Rappresenta il fallimento della vita.
Questa mi terrorizza più di ogni altra cosa.
Sprecare la propria esistenza è davvero terrificante.
Ci avevi mai pensato?
Maurizio Fani